Due relatori di eccezione per un tema tanto attuale quanto terribile che coinvolge la nostra quotidianità.
Qui di seguito ecco l'intervista ad Orietta Moscatelli fatta dalla nostra socia Floriana Raggi.
Intervista a Orietta Moscatelli a cura di Floriana Raggi
giornalista specializzata sui fatti della Russia, del Caucaso, e dell’ Europa dell’Est in generale. Laureata in lingue e letterature straniere all’Università Ca’ Foscari, ha vissuto a Mosca dal 1990 al 1995 lavorando per “Il Messaggero” e altre testate. Poi, dopo Londra e Lione, si è stabilita a Roma dove abita. Attualmente è caporedattrice esteri dell’Agenzia Askanews, collabora da quasi un ventennio con la rivista di geopolitica Limes con analisi su Russia e area ex sovietica ed è anche docente presso la scuola di Limes. A fine giugno 2022 è uscito “P. Putin e il putinismo in guerra” per Salerno edizioni.
“P. Putin e il putinismo” è un testo utile a tutti coloro che conoscono poco la Russia e, dati gli eventi in corso, desiderano saperne di più mettendo a fuoco il contesto e l’origine delle strategie in atto. Orietta Moscatelli, che conosce bene la Russia e ha incontrato Putin più volte al Valdaj discussion club, sa ben guidarci e farci riflettere su questioni storico-culturali molto complesse volte a superare la propaganda o le semplificazioni da talk show. Anche se sottolinea che “provare a conoscere la Russia è un lavoro infinito”. Dopo quel 24 febbraio 2022 in cui la Russia di Putin ha invaso l’Ucraina nell’intento di dare concretezza al progetto di riunificare le tre Russie (Russia, Bielorussia e Ucraina), Moscatelli mette mano a un volume che, con uno sguardo dall’interno, ci permette di risalire al 2014, quando Kiev esce dall’orbita moscovita, e ad anni precedenti, seguiti al crollo dell’URSS. Dunque P come Putin, P come putinismo, ma anche la P che nell’alfabeto cirillico si legge R come Russia perché il leader russo sente di incarnare il destino del suo Paese. La lettura di questo testo ci permette di entrare in una mentalità molto lontana dalla nostra che guarda ancora con favore all’epoca degli Zar. L’autrice ipotizza che il putinismo sopravviverà allo stesso Putin in quanto sistema che si regge su automatismi autoritari e che si autoalimentano nella ricerca di equilibri che devono abbracciare un territorio vastissimo. Il putinismo si regge sui valori tradizionali, in perfetta sintonia con quelli proclamati dal patriarca ortodosso Kirill: famiglia, radici cristiane, memoria storica e patriottismo sono baluardo verso l’Occidente corrotto. I Russi hanno bisogno di simboli e poco importa se la realtà non corrisponde al desiderio di riconoscimento della Nazione come grande potenza. Di fatto la Russia mira a scardinare il primato americano con i mezzi che sa usare: la guerra. Pertanto a livello geopolitico la partita che si sta giocando è ben più ampia dell’offensiva sull’Ucraina; di fatto si è innescato un conflitto globale che mette in campo ridefinizioni economiche globali. Nulla sarà più come prima del 24 febbraio, e a farne le spese sono prima di tutto la popolazione ucraina, vittima sacrificale, e la devastazione di tutto questo sfortunato paese.
Domande
Nel suo libro, uscito a fine giugno, c’è l’attualità della invasione dell’Ucraina da parte della Federazione russa di Putin, ma c’è soprattutto la sua analisi, dall’interno, di un paese immenso, che si sente accerchiato dall’Occidente e che teme per la propria sopravvivenza; teme soprattutto il non riconoscimento come grande potenza. Dunque la Russia di Putin quel 24 febbraio ha sparigliato le carte…insomma come ragiona chi abita al Cremlino?
Il 24 febbraio ha posto drammaticamente fine a un trentennio in cui la Russia ha cercato una collocazione all’interno di un’architettura globale nata dalla fine della guerra fredda, dalla competizione Usa-Urss vinta senza appello dagli Stati Uniti. Nei primissimi anni al potere Putin ha sondato una compatibilità con quel sistema, era forse convinto di poterla trovare, forse non vedeva alternativa, data la debolezza economica, istituzionale e a livello di società in cui si è ritrovata la Russia dei primi tempi post-sovietici. E’ durata in realtà poco e il presidente russo ha passato buona parte del suo abbondante ventennio al potere a recriminare contro l’Occidente e relative politiche di contenimento della Russia. Il punto di rottura viene individuato nel famoso discorso di Monaco del 2007, quando Putin contesta duramente la linea ‘unipolare’ americana e nella sostanza la politica di espansione della Nato. Indicare un momento come sintesi del tutto è sempre una semplificazione, ma a Monaco il capo del Cremlino praticamente annunciò quello che avrebbe fatto la Russia, in assenza di più miti consigli da parte occidentale. Sul piano interno russo. questo ha portato a una progressiva stretta sulle libertà individuali e i diritti, nella convinzione – anche ossessione – che gli Stati Uniti puntassero in fin dei conti a un cambio di regime anche a Mosca. Quel senso di assedio di cui storicamente soffre la Russia è diventato il filo rosso del terzo mandato putiniano al Cremlino, dal 2012.
Da tempo la Russia preparava l’invasione dell’Ucraina aumentando l’autoritarismo interno e accentuando il patriottismo e i valori tradizionali (nuova Costituzione del 2020 sulla quale la maggioranza della popolazione sembra concordare). Come è potuto accadere che Putin abbia così sottovalutato la condizione reale dell’Ucraina, le spinte fortissime verso l’Occidente e i suoi valori, gli aiuti militari da parte dell’Occidente nel 2014 e anche molto prima?
Nell’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio fin dalle prime ore le cose non sono andate come immaginato, e certamente sperato, da Vladimir Putin. Nei suoi piani c’era con ogni probabilità un cambio di regime a Kiev, con un contingente russo insufficiente per un’occupazione, ma ritenuto sufficiente per assicurare che tutto filasse liscio. La dinamica del conflitto fa pensare che l’idea fosse stata di reinstallare un governo che avesse di nuovo la Russia come riferimento. Insomma, Putin voleva tornare al 2014 e riscrivere l’epilogo degli eventi che portato al definitivo distacco dell’Ucraina da Mosca e al suo inserimento nell’orbita occidentale, americana in primis. Però il Cremlino non ha fatto i dovuti conti con gli 8 anni nel frattempo passati, che avevano creato le condizioni per fronteggiare il grande fratello un tempo sovietico. Ci sono stati diversi tipi e gradi di errori nella valutazione. Si può ipotizzare, e si racconta da più parti, che il piano originario russo sia stato intercettato e disinnescato con l’aiuto dei servizi occidentali. E’ punto fermo che la reazione ucraina, la volontà e la capacità di rispondere e resistere hanno stupito il mondo e ancora più il Cremlino. E l’aggressione russa ha cancellato le divisioni che ancora restavano sotto la pelle della società ucraina certamente volta verso l’Europa e l’Occidente, a questo punto senza possibilità di ‘alternanza’ con l’influenza russa. Le armi e l’addestramento forniti dalla Nato hanno fatto il resto, tanto che Putin di recente ha dichiarato di avere sottovalutato la situazione nel 2014, quando lanciò il blitz per l’annessione della Crimea, ma non fece altrettanto con il Donbas, dove oggi si combatte ferocemente.
Oltre ad attendersi minore resistenza in Ucraina, Putin pensava di poter mettere il mondo di fronte a un fatto compiuto, nel giro di due settimane, e forse si era convinto che gli Stati Uniti e l’Europa non avrebbero iper-reagito, perché non interessati a spingere la Russia ancora di più nell’orbita cinese e perché troppo dipendenti dall’energia e dalle materie prime russe. Sappiamo come è andata fino a questo punto. Sappiamo anche che l’obiettivo russo nella sostanza non cambia: disarticolare l’Ucraina, renderla un fardello per l’Occidente e incapace di agire come stato funzionante. I prossimi mesi ci diranno se è il ragionamento di un leader che ha osato troppo e cammina sul filo della sconfitta per totale assenza di alternativa, o se a un certo punto la trattativa con la Russia diventerà inevitabile.
Secondo lei, Orietta, che ha conosciuto Putin dal 2003 al 2021, come è stato possibile per lui, che ai tempi della presidenza Clinton avrebbe voluto la Russia legata alla Nato e all’Europa, arrivare alla svolta conservatrice-autoritaria del 2013 in piena sintonia con il patriarcato ortodosso moscovita, e ora volgere il suo sguardo sempre più a Oriente e alla Cina?
Vladimir Putin è il prodotto degli anni Novanta del secolo scorso, segnati dall’implosione dell’Unione sovietica. Una fase segnata da un generale senso di smarrimento e anche di umiliazione per i russi, precipitati dalla condizione di superpotenza a stato costretto ad accettare aiuti umanitari internazionali. L’attuale leader ha ridato ai russi un senso di dignità, diventato senso di potenza e oggi ridimensionato, a dir poco, dalla guerra in Ucraina. Il suo destino come leader e, più importante, le sorti dalla Russia come Paese e attore internazionale, dipendono da come la Federazione russa uscirà da questa guerra e da quali assetti internazionali si cristallizzeranno sulla scia di questo conflitto nel cuore dell’Europa.
La perdita totale della propria influenza sui gangli del potere ucraino, nel 2014, ha rappresentato una sconfitta insopportabile: personale, sì, per l’inquilino del Cremlino in quel momento, e geopolitica per la Russia nel suo insieme. Putin ha sempre pensato di dovere e potere rilanciare un ruolo guida della Russia nello spazio eurasiatico. Questo progetto si è ammantato nel tempo di una dimensione ideale che rimanda chiaramente al passato zarista, all’unione del nucleo slavo – Russia. Bielorussia, Ucraina – come motore di un’aggregazione nell’area ex sovietica. Senza Kiev questo è impensabile per la Federazione russa, se non impossibile.
Oggi siamo alle estreme conseguenze. L’azzardo bellico putiniano, diventato tragedia che non trova fine, ha messo a nudo un notevole grado di distacco dalla realtà ucraina. Ma anche una totale determinazione a giocare sul piano bellico quel confronto con l’Occidente diventato scontro negli anni Dieci di questo secolo che non sarà né breve né pacifico.
Nei mesi scorsi in Russia abbiamo visto l’allarme e le fughe di migliaia di uomini per evitare il fronte, abbiamo visto una macchina repressiva in azione contro qualsiasi voce dissenziente, ma abbiamo anche constatato la sostanziale tenuta del consenso a Putin. Al netto della propaganda, che ha certo il suo effetto, la maggioranza dei russi accetta la guerra, pur non volendola. Alla base di questo apparente paradosso c’è un ragionamento che a noi può sembrare poco razionale ma per i russi ha una linearità che rimanda a un patriottismo e anche nazionalismo genetico: se il tuo Paese è in guerra, non puoi fare altro che stare con il tuo Paese.
Al decimo mese di guerra personalmente sono molto colpita dalla incomunicabilità tra i due contendenti, dall’odio che si trasmetterà per generazioni, dalla impossibilità finora di arrivare almeno a un cessate il fuoco, dall’arma del “generale inverno” che Putin sta usando, dalle tante morti su entrambi i fronti, dalle devastazioni materiali e spirituali di questa tragedia nel cuore dell’Europa. Perché è così difficile arrivare a una tregua? E l’Europa? Troppo debole e divisa?
Dopo 10 mesi di guerra, la narrazione ufficiale spinge sempre più sull’idea di un conflitto esistenziale per la Russia, nel senso che la Russia si gioca la sua stessa sopravvivenza come Federazione e quindi stato. Il conflitto in Ucraina è presentato come parte di un più ampio scontro tra Occidente e altre potenze destinate ad avere un ruolo e complessivamente prevalere sul Numero Uno americano in un mondo multipolare in via di formazione. Non mi stupirei se a breve le autorità russe cominciassero a parlare di guerra patriottica con il diretto riferimento alla Seconda guerra mondiale: è il punto centrale della memoria condivisa per i russi e anche la chiave per dare un senso al dover resistere, tra crescenti difficoltà, aspettando un futuro migliore. Tutto questo continua ad alimentare il senso di assedio da parte dell’Occidente, che per i vertici russi è diventato da tempo una convinzione e che dai vertici viene distribuito verso la base dai discorsi del presidente, da una macchina propagandistica inarrestabile, dai libri di scuola in costante revisione patriottica. La raffigurazione e la percezione di un Paese accerchiato – Nato a Ovest, Cina a Est, islamisti al Sud e Artico conteso a Nord - ha preparato il terreno per il conflitto aperto. Ora è anche una sorta di polizza sulla vita per il regime putiniano e come ogni assicurazione, ha una scadenza: il Cremlino ha tempo limitato per arrivare a un qualche esito sul campo ucraino che sia traducibile in una vittoria. La Russia intesa come collettività storicamente è in grado di sopportare molto, moltissimo, ma non regge la sconfitta.
Dopo questi mesi di guerra non ci sono ancora le basi per aprire un tavolo negoziale perché la Russia non può accettare una sconfitta e l’Ucraina non ha intenzione di fermarsi in un momento di successo della sua controffensiva sul terreno. Terzo elemento, di primario rilievo: gli Stati Uniti non possono imporre una trattativa a due parti che non hanno possibilità alcuna di incontrarsi a metà strada in termini di riconoscimento di assetti territoriali, e non solo. L’Europa ha un approccio doppio, che sarà difficile gestire sul medio e lungo termine. L’Ue è unita idealmente nel sostegno all’Ucraina e divisa su cosa si possa fare e per quanto tempo, con l’aggravante di difficoltà economiche che cominciano a creare tensioni anche con l’America, che non soffre neppure lontanamente il peso delle sanzioni rispetto a quanto lo sentano gli Stati europei. Sotto la superficie dell’unità di linea e intenti europei ci sono i malumori della Francia, la crisi di nervi della Germania privata del suo entroterra energetico russo dopo il sabotaggio del gasdotto Nord Stream. Ci sono Polonia e Paesi baltici che sognano un futuro senza Russia per implosione della Russia. E c’è un’Italia saldamente collocata a livello politico nell’orbita Nato e a livello di società molto preoccupata per le conseguenze di questa guerra, che continueranno a prodursi anche dopo un’eventuale tregua o armistizio.
In primo piano c’è la questione economico-finanziaria che l’invasione dell’Ucraina mette in gioco: il gas prima di tutto, il grano e il commercio internazionale rischiano di avere effetti devastanti per l’umanità nel suo complesso, e per la parte più debole dell’umanità. Poi le sanzioni: dai contatti che lei ha, cosa comportano le sanzioni per la popolazione russa a livello di gestione del quotidiano? E ai livelli alti dei circuiti finanziari ed economici? Mosca è davvero isolata? Per quanto riguarda noi già ce ne rendiamo conto e non possiamo che sentirci sempre più precari …
Le sanzioni internazionali sino ad ora hanno avuto effetti relativi, ma cominceranno presto a porre problemi reali all’economia russa, troppo connessa ai meccanismi internazionali per reinventarsi in pochi mesi e rilanciare una forma di sovranità economica sul modello sovietico. Per fare un esempio, la Russia si ritrova con una flotta aerea quasi completamente prodotta all’estero e nell’impossibilità di ottenere pezzi di ricambio. Un altro esempio: il rublo è diventato una moneta ‘forte’ all’interno perché le aziende russe non comprano più valuta per acquistare beni occidentali e perché le vendite di gas e petrolio sono convertite in rubli, ma queste vendite sono in continuo calo sul fronte occidentale. La resilienza macroeconomica russa non è a prova di tutto e Mosca deve decidere cosa fare: puntare a un modello di autarchia economica tipo mini-Urss? Scommettere sulla parziale ripresa in tempi gestibili dei rapporti finanziari e commerciali con l’Europa? Fare affidamento sul ‘resto del mondo’ come da narrazione ufficiale? La Russia è totalmente isolata, a questo punto distaccata dal mondo occidentale, e cerca di consolidare i ponti con tutta quella parte del pianeta che non condanna apertamente l’invasione dell’Ucraina e che ha interesse a non rompere con la Russia, per diversi motivi. Numericamente questa parte costituisce la maggioranza, ma non prevale in termini di peso economico. Allo stesso tempo Mosca teme l’eccessiva dipendenza dalla Cina, che peraltro sta molto attenta a non sbilanciarsi troppo negli aiuti ai russi per non incappare nell’ira degli Stati Uniti, da cui dipende importante parte della sua attività commerciale. L’idea dei vertici moscoviti è di riequilibrare con Pechino e tutto il resto. Ma non sono processi che si risolvono nel giro di mesi.
Cosa pensa dello “sdoganamento” del nucleare, spada di Damocle sulle nostre teste, del ventilato uso delle “testate nucleari tattiche”? La paura serpeggia, è giustificata a suo parere?
La Russia ha usato da subito la retorica nucleare, minaccia sempre meno implicita a mano a mano che passa il tempo e le cose in Ucraina non andavano come sperato dal Cremlino. L’ombra della bomba, per usare un’espressione di sintesi coniata da Limes, serve al Cremlino come arma di deterrenza, per ricordare al mondo, ma anche alla sua opinione interna, che non è possibile in ultima istanza sconfiggere la Russia. Putin ha escluso abbastanza esplicitamente l’uso dell’atomica tattica in Ucraina, dichiarando questa opzione “insensata”, e davvero lo è. Ma il presidente russo continua a lasciare intendere che il ricorso alla nucleare non può essere escluso, spostando il discorso alla prospettiva di un conflitto allargato che potrebbe coinvolgere direttamente la Nato. Non è uno scenario probabile, ma nessuno può escluderlo, e certo non lo fa Putin.
Lei scrive che la Russia potrebbe non avere Putin al comando ma essere ancora più putiniana. Allo stato attuale della guerra e delle sue conoscenze, quali le ipotesi sui risvolti a cui potremmo assistere?
Chi abita il Cremlino è personificazione del potere in Russia e da sempre il potere russo deve temere gli apici e la base. Ovvero le élite, fedeli al leader solo finché il leader tiene in pugno la situazione, e il popolo, che da sempre ha un rapporto ambiguo con il potere: lo teme, lo venera e lo odia allo stesso tempo, che sia lo zar, il segretario del Partito o il presidente. Questo dualismo si ripropone nelle fasi di crisi e Putin ne è perfettamente cosciente. Il putinismo di cui parlo nel libro è in sostanza due cose. È innanzitutto un sistema di potere plasmato negli anni, molto più articolato di quanto ci siamo raccontati dal 2000 ad oggi, un sistema in cui il leader è stato a lungo l’arbitro supremo tra diversi gruppi di potere e diversi interessi, sempre impegnato a bilanciare una molteplicità di istanze e un esercito di gerarchi in lotta tra di loro. Il putinismo è anche una sorta di visione della Russia e del mondo, che professa fedeltà ai cosiddetti valori conservatori (famiglia, patria, identità religiosa) e si erge a ultimo baluardo delle radici cristiane dell’Europa, a fronte di un Occidente descritto come corrotto e accecato dagli eccessi del liberalismo. Non c’è molto di nuovo rispetto ai valori tradizionali della Russia zarista e rispetto all’Urss. Con quest’ultima la differenza è nell’assenza di una ideologia, ma la guerra sta accentuando l’aspetto valoriale, che è visto dai gerarchi del Cremlino come un collante necessario per preservare l’identità e in fin dei conti la sovranità russa, per dare senso e sostanza alla rottura con l’Occidente. La Russia di Putin è in cerca di una nuova idea che corrisponda a un nuovo modello di società, oltre che di economia. Ai russi serve qualcosa di più articolato in cui credere e in questo senso il putinismo dà segnali di aspirare a diventare una ideologia più compiuta. Il futuro ci dirà se questo sistema, plasmato per sopravvivere a Putin, sopravviverà a una guerra prolungata.
Da ultimo: la resistenza e il patriottismo degli ucraini sarebbero pensabili senza il ruolo assunto da Zelenski? Senza i suoi costanti appelli alla fornitura di armi e senza la sua presenza mediatica?
La trasfigurazione di Zelensky, da leader traballante nei sondaggi a simbolo quotidiano della resistenza ucraina ha stupito il mondo, e probabilmente i russi più di tutti. Zelensky ha mostrato coraggio, determinazione e una capacità comunicativa senza pari. Se fosse fuggito nelle prime ore dell’invasione russa, se avesse accettato l’idea di un governo in esilio, oggi sarebbe una patetica figura politica destinata all’oblio. Certo, è stato aiutato dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna anche in termini mediatici e la guerra dell’informazione la Russia l‘ha persa in partenza. Altrettanto certo, l’aggressione russa ha unito il popolo ucraino molto più di quanto il governo di Kiev abbia fatto nell’ultimo decennio, compreso i tre anni con Zelensky in sella al momento dell’inizio del conflitto. Il problema del presidente ucraino a questo punto è come arrivare a un negoziato dopo aver escluso per legge possibili trattative con Putin e, più semplicemente e drammaticamente, a che punto fermarsi. L’Ucraina uscirà dalla guerra, in ogni caso, in condizioni devastate, probabilmente amputata territorialmente. Il lavoro più duro di Zelensky comincerà dopo una tregua, sempre che non sia di nuovo la Russia a risolvere il problema all’origine, implodendo prima dell’Ucraina. Ma sinceramente non credo che quest’ultimo sia lo scenario più probabile.
Floriana Raggi
vive nell’entroterra di Rimini a pochi chilometri da Santarcangelo di Romagna, culla di poesia dialettale, teatro, e altre arti; ama la lettura e la scrittura. Ha svolto la professione di assistente sociale, ed è entrata in contatto con storie segnate da molti pesi esistenziali di cui ha scritto in un diario che si trova depositato all’Archivio di Pieve S. Stefano: “Con il favore di Urano”. L’Archivio conserva altri due diari: “Le moire intrattenendo” che ha come interlocutrice la madre immersa nella dimensione straniante della demenza; “Sulle tue tracce e sulle tracce dei Ribiglioun” diario rivolto al padre, deportato IMI nei campi di lavoro tedeschi, morto nel 1971, in occasione del suo 100° compleanno nel 2018. Studiosa di Astrologia è stata allieva di Lisa Morpurgo e recentemente si sta appassionando alla poesia haiku, capace di cogliere sentimenti profondi nella sua sintesi fulminante. Dal pensionamento in poi si è dedicata al ‘volontariato culturale’ prendendosi cura di iniziative letterarie promosse da Comuni e Associazioni del territorio.